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11/02/2022

La peste suina africana torna a diffondersi in Italia. Che cosa sta succedendo e cosa aspettarsi per il futuro.

Mentre continuiamo a difenderci da una pandemia che ci ha costretti a due anni di isolamento, c’è un angolo del Paese che si deve preoccupare di un virus che non colpisce gli umani ma che potrebbe comunque causare danni.

Si tratta delle peste suina africana (ASFV, dall’inglese African swine fever virus) che in Italia conosciamo dal 1978, anno dell’arrivo del Genotipo I. La malattia attacca maiali e cinghiali e, come spiega il Prof. Vittorio Guberti – veterinario dell’ISPRA e docente dell’Università di Bologna – si tratta del “virus delle zecche che in Africa, da dove è arrivato, si trova anche nel facocero. Sia le zecche che i facoceri sono, però, dei portatori sani e asintomatici. E’ quando noi europei abbiamo introdotto il maiale in Africa che l’abbiamo visto in azione: gli animali prendevano il virus dalle zecche e morivano”. Oltre che attraverso le zecche e i facoceri, la peste suina africana si diffonde per contatto diretto fra gli animali infetti o a causa dell’ingestione di carni contaminate.

Da non sottovalutare il contagio involontario e mediato dall’uomo che rimane comunque un fattore di rischio molto rilevante per la trasmissione del virus. Gli spostamenti delle persone, infatti, sono stati spesso causa di diffusione, dato che qualsiasi oggetto contaminato, come vestiario, calzature, automezzi e altre attrezzature, può essere un efficiente veicolo di infezione. La cosa che ultimamente preoccupa ancora di più rispetto agli ultimi anni è che, per la prima volta, il Genotipo II della malattia è giunto nel continente. Da circa tre settimane, infatti, un’area di approssimativamente 2.000 Km2 al confine tra Liguria e Piemonte è in allerta totale. Decine di migliaia di suini sono a rischio nei prossimi mesi.

L’arrivo della PSA (peste suina africana, per noi italiani) in Liguria e Piemonte è preoccupante per molti motivi” – ci dice Guberti – “attualmente le regioni coinvolte sono circa 5 e il virus potrebbe cominciare a correre. Se arrivasse a colpire i territori dove la suinicoltura è un’attività economica trainante causerebbe danni incalcolabili. Se, per esempio, raggiungesse le aree dove si produce il prosciutto di Parma, quel prodotto non potrebbe più uscire dalla zona infetta, a meno di ottenere deroghe e passare una serie di verifiche sanitarie che farebbero lievitare i costi di produzione

E’ indispensabile, quindi, applicare misure rapide per limitarne la diffusione quanto prima perché, se da un lato la popolazione di cinghiali selvatici rischia di venire decimata incrementando la diffusione su larga scala dell’infezione, dall’altro la presenza del virus nel cinghiale pone un alto rischio di estensione della malattia nel maiale mettendo a rischio tutta la filiera produttiva delle carni e della loro trasformazione.

Attualmente Piemonte e Liguria hanno messo in atto delle misure che mirano ad arginare la situazione. Prevedono, infatti, un lockdown delle aree infette, con il divieto di alcune attività quali la caccia, raccolta di funghi e tartufi, pesca, escursionismo ma anche di trekking, mountain bike e tutte quelle azioni strettamente connesse con il territorio.

La soluzione, per quanto riguarda i cinghiali, non è quella di incrementarne la caccia. Guberti è stato chiaro sulla questione: “La caccia e le malattie non vanno mai d’accordo” – afferma. Per eradicare un virus all’interno di un’area contaminata è necessario creare spazi-cintura intorno alle popolazioni di animali infetti; impedirne gli spostamenti dalla zona interessata e, una volta che l’infezione viene localizzata e delimitata, ridurre il più possibile la popolazione dei selvatici al suo interno. Come spiega Sofie Dhollander, esperta scientifica sulla salute e sul benessere degli animali dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA – European Food Safety Authority) durante un’intervista del 3 febbraio scorso – “Si può applicare lo stesso principio della cintura tagliafuoco messa intorno a un incendio boschivo: si stabilisce una zona intorno a un’area non popolata da cinghiali molto prima che l’infezione arrivi. Quando il virus arriva nella zona priva di popolazione si estingue perché non ci sono più cinghiali da infettare che lo possano propagare”

Cosa aspettarci per il futuro?

In Italia è in partenza la missione dell’Euvet, squadra di emergenza veterinaria, composta da esperti nei settori delle scienze veterinarie, della virologia, della fauna selvatica, dei test di laboratorio, della gestione del rischio e di altre aree rilevanti. L’azione volta a fronteggiare la peste suina africana prevede visite sul campo, incontri col Ministero della Salute e con le autorità sanitarie regionali e locali delle regioni maggiormente interessate e colpite. Nel frattempo, l’istituto Zooprofilattico sperimentale del Piemonte, Liguria e della Valle d’Aosta sta continuando le indagini diagnostiche, analitiche e di supporto tecnico scientifico. Sta seguendo la stessa strada anche quello della Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana. Inoltre, un team di esperti della Commissione Europea fornirà assistenza scientifica, tecnica, gestionale e pratica che servirà per perfezionare le misure di controllo e fronteggiare la corsa del contagio da PSA.

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